La città pulita? Uno slogan sepolto sotto i rifiuti

Viale Geno, Como, ore 22:45. Le immagini scattate venerdì scorso parlano chiaro: cestini stracolmi, bottiglie di vetro, cartoni, sacchi a terra. Una situazione indecorosa, in uno dei punti più suggestivi e frequentati della città.
Eppure, il sindaco Rapinese aveva promesso tutt’altro. In campagna elettorale parlava di una Como pulita, ordinata, “da cartolina”. Poi, una volta eletto, sono arrivati i proclami: cinque nuove squadre di spazzini, cestini “intelligenti”, controlli, fototrappole, multe e sanzioni per i trasgressori e magari anche i suoi “colleghi” Avengers.
Punire chi sporca è giusto, sacrosanto. Ma ormai conosciamo bene le modalità comunicative del sindaco: bufera sul cantiere dei giardini a lago? E lui rilancia con un video sui “bifolchi” colti in flagrante. Ma la sporcizia a Como non è fatta solo di gesti incivili. C’è un degrado più silenzioso e più grave: quello strutturale, che deriva da un servizio che continua a non essere efficace.
E qui vale la pena ricordare un principio tanto semplice quanto efficace: degrado chiama degrado. Lo sapeva bene Rudy Giuliani quando, da sindaco di New York, applicò la celebre “regola delle finestre rotte”: più un ambiente viene lasciato sporco o abbandonato, più le persone si sentono legittimate a contribuire al disordine. È una dinamica psicologica, ma anche profondamente sociale.
Lo dimostrano non solo le condizioni di viale Geno, ma anche quelle intorno allo stadio, in via Milano, nelle periferie. E mentre il livello del servizio resta questo, la Tari aumenta.
Siamo stanchi degli annunci, dei post autocelebrativi, delle colpe sempre scaricate sugli altri. Chi amministra ha il dovere di risolvere i problemi, non solo di raccontare che lo sta facendo.
O dobbiamo pensare che, anche stavolta, sia colpa “di quelli che c’erano prima”?