Il fallimento che ci prepara alla risurrezione

Ci sono parole che ti restano dentro. Quelle di Luca Filippini, in una lettera pubblicata ieri su La Provincia di Como, sono tra queste. A colpirmi, più di ogni altra cosa, è stata una frase semplice ma potentissima: «fu verso Pasqua che mi separai, con dei figli ancora piccoli, quindi associo questi giorni al mio principale fallimento.»
Ecco, è stato quel passaggio a spingermi a scrivere questa riflessione. Perché anch’io ho vissuto – e vivo – la separazione come una frattura, una sconfitta, un peso che ci si porta addosso ogni giorno. E come Luca, ogni mattina mi sveglio con l’obiettivo di essere il padre migliore possibile per mia figlia Vittoria. Non è retorica, è una battaglia interiore che conosco bene. E che so di condividere con tanti uomini, anche se pochi hanno il coraggio di ammetterlo.
Viviamo in un tempo in cui il fallimento è diventato un tabù. Una società costruita su un’immagine patinata e tossica della felicità, dove bisogna essere sempre vincenti, sorridenti, impeccabili. Una società photoshoppata che ci obbliga a mettere in mostra il meglio, mentre il peggio – cioè la parte più vera – dobbiamo nasconderla, rimuoverla, negarla. Ma la verità è che la vita, quella vera, non possiamo migliorarla con un filtro di Instagram. È fatta di errori, delusioni, cadute, tentativi, fallimenti. E sono proprio questi momenti a definirci. Perché è lì, in mezzo alla polvere, che si vede la nostra vera forza: non nel non cadere, ma nella capacità di rialzarci.
In questo senso, ho trovato la lettera di Luca non solo sincera, ma necessaria. Soprattutto in un momento come la Pasqua, che troppo spesso viene ridotta a festa commerciale, svuotata del suo significato più profondo. Perché sì, come scrive Luca, «Pasqua di Resurrezione è anche la celebrazione di una perdita». E la perdita può essere di un amore, di una relazione, di un equilibrio… o anche, come nel mio caso, di una persona cara. Io, ad esempio, associo al Natale la morte di mio Papà. Da allora, quelle feste non sono più le stesse. E credo che ognuno di noi abbia almeno un giorno dell’anno che porta con sé ricordi e ferite.
Per questo la lettera di Luca mi ha colpito: perché ci unisce in qualcosa di profondamente umano. La consapevolezza che anche dentro il dolore può nascere qualcosa di buono. Una forza nuova. Un motivo per ricominciare.
E forse è proprio questo, in fondo, il significato più autentico della Pasqua: non la vittoria nel senso facile del termine, ma la resurrezione come capacità di attraversare il buio e uscirne con lo sguardo rivolto al futuro.
È la lezione che ci danno le persone vere. Quelle che cadono e si rialzano. Quelle che non recitano una parte, ma vivono fino in fondo ogni singolo giorno. E sì, è anche il messaggio che sin da piccolo trovo nell’epica di Rocky Balboa: un uomo qualunque che prende colpi, crolla, sanguina… ma si rialza sempre. Non per vincere una cintura, ma per restare fedele a chi è, a ciò in cui crede, e alle persone che ama.
Grazie Luca, davvero. Perché in mezzo a tanta ipocrisia, hai avuto il coraggio di essere autentico.
E buona Pasqua a tutti noi che, ogni giorno, scegliamo di non arrenderci.